“Chernobyl, provincia di Caltanissetta”. La frase, oramai
illeggibile, sbiadita dalla pioggia, cancellata dal tempo, campeggia
da anni su un vecchio guardrail della statale 115, alle porte di
Gela. Sullo sfondo, i fumi delle ciminiere, neri come il petrolio, si
allungano come tentacoli sulla città e se la prendono. Gela,
provincia di Caltanissetta. Benvenuti nel paese dove si muore prima
ancora di nascere. Si muore di tumore, di leucemia; si muore
schiacciati dalle esalazioni, a volte dalle macchine, si muore
all'interno dei reparti e muore anche chi sta fuori, nelle abitazioni
non distanti, nelle città. Sono le Ilva di Sicilia: Gela, ma anche
Milazzo, Priolo, Melilli e Augusta. Questa volta l'allarme arriva dal
più autorevole dei pulpiti: l'Organizzazione mondale della Sanità,
che in uno studio di oltre 1200 pagine presentato a inizio mese,
passa al setaccio, centimetro dopo centimetro, la vita e l'ambiente
dei siciliani nelle aree a rischio dell'Isola. I risultati sono
inquietanti: falde imbottite di mercurio a Gela, cloro nel latte
materno ad Augusta, polveri di amianto nell'aria di Priolo e acque
all'arsernico nel mare di Milazzo. Sessantamila le tonnellate di
sostanze tossiche rilasciate ogni anno dalle multinazionali del
carburante nei cieli della regione. Una montagna di veleni che ogni
anno uccide più di 300 persone. I decessi per tumore sono maggiori
del 12 per cento rispetto ala media europea. Il rischio di
ammalarsene sfiora l'ottanta per cento delle possibilità
Veleni e mancate bonifiche così si ci ammala nelle città dei
petrolchimici
Il rapporto dell'Oms sulle Ilva dell'isola
La maggior parte delle vittime ha lavorato negli stabilimenti.
L'Oms le ha contate nella piccola San Filippo del Mela, a pochi
chilometri da Milazzo. L'ì aveva sede la ex Sacelit, fabbrica con
220 dipendenti. Più della metà, ben 115 operai, sono morti sotto la
scure dei mesoteliomi causati dall'esposizione all'amianto. Le
polveri poi non risparmiano i più piccoli: sono preoccupanti i dati
sulle malformazioni genetiche che raccontano di come i rischi nelle
città dei poli industriali sono addirittura sei volte superiori alla
media.
NASCERE MALATI
Bimbi con sei dita alle mani o ai piedi. Alcuni nati senza un
orecchio, altri senza il palato. Idrocefali con teche craniche di
dimensioni abnormi. Sulla vicenda indaga la Procura di Gela che lo
scorso anno ha aperto un'inchiesta per far luce sulle responsabilità
sugli oltre 30 casi di bambini affetti da gravi patologie generiche.
Filippo Astuti, 33 anni e senza lavoro, è il padre di una delle
vittime. Nel 2006 sua figlia è nata con una grave palatoschisi, una
malformazione del palato che comporta il pieno contatto fra la zona
del naso e della bocca con seri problemi all'alimentazione, allo
sviluppo del linguaggio e un alto rischio di infezioni
broncopolmonari. Otto mesi di ricovero e due interventi molto
delicati il lungo calvario di una bambina di appena 6 anni. Due anni
più tardi, sua moglie è costretta a interrompere un'altra
gravidanza. Il feto di 5 mesi che porta in grembo soffre di un
irreversibile difetto natale. “Siamo stanchi – dice Astuti -
stanchi di stare a guardare. Abbiamo visto centinaia di medici.
Girato decine di ospedali. Ci hanno detto che la causa è
l'inquinamento. Ora però vogliamo giustizia. Vogliamo la verità
sull'aria che stiamo respirando.”
La verità in realtà era stata già scritta dieci anni prima dal
geologo Giuseppe Risotti e dal chimico Luigi Turrito in un lungo
dossier inserito nel rapporto dell'Oms. Incaricati nel 2002 dal
sostituto procuratore Serafina Cannata, i due ricercatori
consegnarono una relazione secondo cui nella falda sottostante lo
stabilimento di Gela giacevano 44 mila tonnellate di gasolio
proveniente dalle perdite dei serbatoi. In quello stesso anno, sempre
a Gela, uno studio realizzato dal genetista Sebastiano Bianca, uno
dei massimi esperti nel campo, e dall'epidemiologo del Cnr Fabrizio
Bianchi, riscontrò in città un'incidenza del 4 per cento di
malformazioni sui neonati e più di 520 bambini affetti da patologie
genetiche. Si chiamano indocrine disruptors, distruttori endocrini.
Sostanze artificiali prodotte da inquinanti come quelli emessi dalle
raffinerie, in grado di intaccare i recettori ormonali, causando
tumori, difetti alla nascita e disturbi dello sviluppo. Una di queste
è il policlorobifenolo, la cui tossicità in alcuni casi è
paragonata a quella della diossina. Secondo i dati forniti dall'Oms,
il latte delle donne della provincia di Siracusa ne contiene il 30
per cento in più rispetto alla media regionale e forse non è un
caso che proprio nel polo di Augusta nel 2000 il 5 per cento dei
bambini è nato con malformazioni. Sei anni più tarsi la Syndial,
società del gruppo Eni, sborsò circa 11 milioni di euro per i cento
casi di bambini malformati. Una sorta di risarcimento preventivo
prima di arrivare ad una sentenza che avrebbe pregiudicato il nome
dell'azienda. La Syndial pagò, le famiglie incassarono e la vicenda,
ancora una volta, cadde nel silenzio.
BONIFICHE FANTASMA
Nelle città dei veleni non è solo l'aria ad uccidere. Anche la
terra nasconde la sua peste. Le falde dei poli industriali sono
imbottite di sostanze tossiche, a Gela, per esempio, lo studio
dell'Oms ne riscontra una presenza migliaia di volte superiore alla
media. Sono sostanze che per legge le aziende avrebbero dovuto
rimuovere. Cosa che non sempre è accaduta.
“Bonificare fa bene all'economia – dice Enzo Parisi,
responsabile del dipartimento regionale di Legambiente per il settore
industria, rifiuti ed energia – ma fa più bene alla salute e
all'ambiente. Immaginate le vite che si potrebbero salvare ogni anno
attuandole e il verde che si potrebbe far rinascere. E invece più
del 75 per cento della vegetazione entro il raggio di un chilometro
dalle fabbriche è andato distrutto”.
La Regione negli ultimi vent'anni ha erogato circa 40 milioni di
euro per la bonifica delle aree industriali a rischio, da quello di
Augusta-Priolo-Melilli a quella di Gela e, per ultimo, al
comprensorio di Milazzo-San Filippo del Mela. Tutto è stato fatto
tranne quello che doveva essere fatto: almeno un terzo dei fondi se
ne sono andati per il mantenimento delle strutture commissariali, per
pagare gli straordinari del personale, i compensi dei tanti esperti
scomodati, gli studi commissionati, i progetti, persino la
pubblicazione di bandi di gara poi mai espletati, così, dal 1990 le
falde siciliane rimangono ancora infestate dai veleni. Vent'anni
dopo, le dichiarazioni di aree a rischio a Siracusa e Gela, reiterate
per 15 anni, il massimo previsto dalla legge, sono decadute. Nessuno
sa come sono stati spesi quei soldi e dove sono finiti e soprattutto
in nessuno dei territori a forte rischio ambientale è stata
realizzata una rete di monitoraggio che permetta ai cittadini di
sapere se e quanto veleno respirano ogni giorno.
MALATTIE SENZA LAVORO
Una volta c'era l'occupazione a tenere cucite le bocche. Nella
Sicilia del dopoguerra, migliaia di posti di lavoro piombati sul
deserto di città come Priolo e Melilli, rappresentarono una vera e
propria manna dal cielo. Quando arrivarono le malattie, in molti
chiusero un occhio. In fondo, dicevano, anche i soldati muoiono in
guerra. Oggi il colpo di grazia alle aziende del petrolchimico arriva
proprio dalla crisi. Da quei posti di lavoro che non ci sono più.
L'Oms dedica un intero capitolo alla situazione socioeconomica dei
poli siciliani. L'occupazione dagli inizi degli anni Ottanta è scesa
da undicimila e cento unità lavorative ad appena settemila. “Dal
dopoguerra ad oggi il greggio in Sicilia ha bruciato più del 50 per
cento dei posti di lavori creati”, scrivono i ricercatori nel
rapporto. Li chiamano “svecchiamenti”, esuberi senza
rimpiazzamenti. Tra gli operai mandati a casa, molti sono malati di
tumore. L'offerta dell'azienda è una maxi-liquidazione in cambio del
loro silenzio. Una formula che non serve solo a sfoltire l'organico
ma soprattutto a mettere una pietra sulle pericolose richieste di
risarcimento dei lavoratori. È meglio mandarli in pensione gli
operai malati di tumore. E una montagna di quattrini è un'offerta
più che ragionevole. A patto che non parlino. Perché una volta
fuori, e incassati i soldi, non potranno mai più fare causa
all'azienda. Come il caso dell'operaio denunciato da Repubblica lo
scorso 12 settembre. Giuseppe (il nome è di fantasia
ndr), ha
lavorato per più di 30 anni alla Esso. Da sette anni è affetto da
una grave patologia tumorale all'esofago. L'azienda lo ha mandato a
casa con un “premio” consistente (oltre 100 mila euro). A una
condizione: al punto 6 in una copia del contratto arrivata alla
redazione di “Repubblica” Palermo, l'operaio “dichiara di
rinunciare, in via sostanziale e definitiva, a qualsiasi risarcimento
danni nei confronti dell'azienda, a qualunque titolo, anche
biologico”. E mentre i sindacati parlano di “condizioni
inammissibili davanti a qualsiasi giudice”, in una lettera inviata
alla nostra redazione, la Esso si difende dalle accuse: “La nostra
azienda non ha infranto alcuna regola. Quei contratti sono stati
accettati su base volontaria”.
Continuano invece a Gela le indagini della Procura su altri
sospetti d'insabbiamento. Sotto esame l'operato dell'Eni e delle
società ad esso correlate (Anic, Enichem e Praoil). Diciassette gli
indagati per omicidio colposo. Tra le accuse più gravi rivolte
all'azienda, quella di aver nascosto per decenni gli esami clinici
dei dipendenti con livelli preoccupanti di mercurio nel sangue. Il
reparto in questione è il Clorosoda: cinquantadue celle imbottite di
amianto e mercurio. I lavoratori lo raccoglievano con secchi e
mestoli.
Pochi giorni dopo la morte di suo padre, che al Clorosoda aveva
lavorato per più di vent'anni, Massimo Grasso ricevette una busta
senza mittente contenente alcuni documenti relativi alle attività
svolte dai lavoratori del reparto. Tra le carte allegate al plico,
gli esami delle urine a cui venivano periodicamente sottoposti gli
operai. “Analizzando i documenti – racconta – riscontrammo
subito alcune gravi anomalie”. I valori mercuriali fuori dai
parametri legali (quelli dell'operaio Grasso erano 4 volte superiori
alla media) non erano stati registrati nel libretto sanitario
personale dei lavoratori che rimanevano all'oscuro di tutto. Accanto
all'asterisco, i medici scrivevano: “Far ripetere (gli esami,
ndr)
al più preso e far ruotare di posizione”. I lavoratori a quel
punto venivano trasferiti in altri settori dell'impianto meno
rischiosi. Quando però i valori tornavano nei limiti di
tollerabilità, gli operai venivano ritrasferiti nei reparti
d'origine. “Insomma – continua Massimo – l'azienda sapeva che
il mercurio s'infiltrava lentamente nel sangue dei suoi dipendenti. E
l'unico provvedimento era quello di nascondere gli esami clinici agli
operai stessi e trasferirli in altri settori in attesa che il
mercurio tornasse ai livelli normali”. Il processo continua. Ma
molti degli operai non saranno presenti li giorno che arriverà la
sentenza. Oggi, solo la metà di loro partecipa alle udienze contro i
vertici della raffineria che li aveva costretti a lavorare in quelli
condizioni. Il resto si è ammalato di tumore: 12 sono già morti.
Gli altri (circa 105 lavoratori) lottano per rimanere in vita. Per
guardare in faccia i responsabili. Per non morire senza giustizia.
La Repubblica Palermo
6/10/2013